sábado, 20 de mayo de 2017

RACCONTO: VITE PARALLELE -THE NJCHLAS' STORY IX


RACCONTO: 

Per. Pietro Bazzoli
Illustrazione: Daniele Enoletto 


Quel fragore, che aveva squarciato il cielo di Firenze in una lugubre mattinata estiva d'inizio secolo, non apparteneva a un tuono qualunque. Negli anni a venire c'è chi disse che nei pressi di Santa Croce si fosse udito più forte, quasi non provenisse dalle nubi grigiastre che minacciavano tormenta, bensì dalle fondamenta della chiesa stessa.

Anche don Claudio, che stava parlando con un cliente della galleria, s'interruppe per lasciare all'eco il tempo di perdersi nei cuori dei bambini per le vie, fino a scomparire. L'elegante curatore teneva tra le mani la copia di un quadro fiammingo, i cui colori sembravano prendere vita balzando fuori dalla tela. Lasciò il piccolo quadro sul lucido mobile di noce e, scusandosi con il suo interlocutore, si diresse verso l'uscita, per gettare lo sguardo contro il cielo coperto di nuvole biancastre.



<<Qualcosa non va, don Claudio?>>, sentì dire alle sue spalle.

Quelle parole non riuscirono ad allontanare il torpore che il tuono gli aveva lasciato addosso.

In quell’istante ebbe la strana sensazione che gli fosse appena stato sottratto un dono prezioso e che non avrebbe mai più rivisto il giovane pittore a cui si era affezionato. Non capiva come pensieri tanto distinti potessero essersi appaiati nella sua mente, come se fossero nati legati da un destino comune.

Ripensò senza riserve a Njchlas e a quando l'aveva conosciuto: disteso nell’angolo buio di una via, quasi del tutto privo di sensi, sembrava aver dimenticato come ritrovare la via di casa. Un'anima abbandonata sul ciglio dell'alba, dopo una notte all'addiaccio simile a chissà quante altre. In seno, stringeva due cose: una tela arrotolata che non voleva vendere a nessuno dei passanti e un animo colmo di grandi speranze che, senza l'aiuto del curatore, non avrebbero visto il sorgere di un nuovo giorno. I suoi sogni a occhi aperti, il suo carattere ribelle e quel sorriso malinconico, che lo accompagnava come un'ombra e che mostrava solo a chi era degno di fiducia, gli sarebbero mancati; così come il suo talento e la volontà d’imprimere la rabbia sulla tela, insieme alla follia, alla giovinezza e a quell'aspetto inconoscibile proprio dell'essere umano.

Quella parte intima, nascosta, così fragile e preziosa, ma allo stesso tempo misteriosa, capace di indurre all’ossessione per un proprio simile. Sebbene non lo si conosca mai fino in fondo. Del resto, non si conosce mai nessuno fino in fondo, nemmeno se stessi.

Don Claudio si perse in mezzo ai quei pensieri, nel ricordo del suo pupillo, sicuro che non si sarebbero mai più incontrati. Gli augurò buona fortuna, lasciando al vento il compito di recapitare il suo messaggio d'addio.

Fu una figura esile e titubante a catturare il suo sguardo. Una ragazza era in piedi, dritta come un fuso, che lo fissava.

***

Donna Angela si stava dedicando alla sua attività preferita, ossia stendere i panni in cortile cantando le arie liriche che sentiva alla radio. Soltanto una cosa le dava più soddisfazione: lanciare occhiate storte a chiunque avesse la lingua tanto lunga da contraddirla. Non succedeva spesso ma, agli sprovveduti che mostravano tanto coraggio da esprimere un parere diverso dal suo, la donna riservava un mese di silenzi misti a sguardi infuocati e, per chi continuava imperterrito, la punizione poteva durare vita natural durante. La regola valeva per tutti, tranne che per Njchlas: quel ragazzo aveva il potere di farla sciogliere come le buone intenzioni alla vista di un peccato.

Il tuono rimbombò nelle sue orecchie, mischiandosi al sapore stonato della lirica. Donna Angela tacque per un secondo, guardando per aria con un panno umido ancora stretto tra le dita. Sembrava che nulla, dopo quello scoppio, si muovesse nel mondo. Donna Angela respirava piano, cercando di non disturbare la quiete che era calata nel cortile subito dopo il tuono. Solo il gocciolio del panno, che lentamente stava formando una piccola pozza sul terreno battuto e polveroso, riempiva l'aria. Ogni goccia pesava quanto un macigno e rimbombava come il rintocco di un martello su una campana di cristallo, tanto forte che, dopo un paio di battiti il vetro lavorato s'infrangeva in mille pezzi. Nella stessa maniera, la coscienza della donna s'infranse contro il cielo carico di pioggia. Fissò le nuvole, chiedendosi quante persone stessero facendo lo stesso e se fosse l'unica ad aver sentito il rombo riecheggiarle nell'anima.

Appese alla bell’è meglio il panno alla corda tesa e si diresse verso l'ingresso, dove un piccolo gradino segnava il passaggio verso lo spiazzo. Si sedette per terra con fatica, ignorando la polvere che le sporcava la gonna e le caviglie, ed estrasse una sigaretta -Nazionale, senza filtro- dalla tasca interna del grembiule. Pacchetto e fiammiferi erano ben nascosti e nessuno sospettava della loro esistenza. Incurante degli sguardi della platea di inquilini se ne portò una alle labbra e l'accese con una boccata piena, lasciando che il fumo denso le invadesse i polmoni. Soffiò il fumo verso la volta dell'androne, tornando a fissare il cielo che adesso era bianco candido, senza che un solo squarcio di cielo s'intravedesse in quel manto uniforme.

-Chissà dov'è Njchlas, quel disgraziato non è tornato ieri notte-, pensò.

Aspettò un secondo e fece un'altra boccata liberando la scia di quella piccola colpa personale nell’aria.

Per un attimo si chiese se non fosse meglio ritirare i panni, con uno sforzo di realtà che la trasportò lontano dai suoi pensieri.

Sentiva un istinto materno che la legava al giovane, eppure di lui non sapeva nulla: né da dove venisse, né chi fosse stato. Come assicurazione aveva avuto la parola di Don Claudio e poco altro. Si sforzò di ricordare. La prima volta che Njchlas l’aveva guardata negli occhi, aveva un sorriso tirato sulle labbra, come se non credesse di valere abbastanza da sperare di avere ancora un'anima in corpo.

Quanto si sbagliava: nei mesi successivi l'insieme di cure e rimproveri che aveva propinato al giovane, che faceva di tutto per distruggersi, avevano fatto in modo che lei si affezionasse a lui.

Ricordava una sera in cui era troppo ubriaco per tornare in camera. Donna Angela l'aveva trovato carponi sulle scale, raggomitolato su se stesso e coperto di lacrime. Lei inizialmente lo aveva rimproverato, ma poi, vedendo che non si muoveva, gli aveva messo una mano sulla spalla. Nel sentire il tocco amorevole, Njchlas si era gettato tra le sue braccia, piangendo come un bambino.

<<Stupido ragazzo. Perché ti sei ridotto così?>>. Aveva chiesto lei con una dolcezza di cui non si credeva capace.

<<Perché non riesco a sopportare tutto questo>>.

<<Tutto questo cosa?>>.

<<Il mondo. Mi schiaccia. A volte è faticoso anche solo respirare>>.

E senza aggiungere altro si era nascosto contro il suo petto, sperando di essere protetto e continuando a piangere finché non si era addormentato. Lei l’aveva accompagnato in camera e adagiato sul letto con il desiderio che riuscisse finalmente a fuggire da quegli incubi che sembravano dilaniarlo anche da sveglio.

La sigaretta le si era spenta tra le dita e quando donna Angela provò a tirare un'altra boccata, sentì un sapore acre in bocca, il gusto del tabacco sporco e della carta bruciata.

Buttò la sigaretta giallognola in un vaso di magnolie e si tirò su a fatica.

In quel momento sentì un rumore alle spalle.

Un fascio di luce irradiò l'androne per un istante, per lo stesso frammento di secondo in cui si può sperare di guardare negli occhi Dio in persona.

Donna Angela si voltò, ma non fu l'Altissimo quello che vide alle sue spalle, bensì Njchlas. 

<<Finalmente>>.

<<Donna Angela>>, disse solo, con un sussurro.

<<Dove sei stato? Ero preoccupata>>.

La donna non fece nulla per mascherare quel tono di voce, così simile a quello di una madre in pensiero.

<<Nel peggiore degli incubi, credo. Non lo so. Magari sto ancora dormendo>>.

Il ragazzo le sembrò turbato come mai prima di allora. Nuovamente un frammento di quella terribile notte fece capolino tra i suoi pensieri.

Ma questa volta gli occhi di Njchlas non erano quelli di un bambino spaurito. Erano quelli di un animale braccato, in attesa del fendente fatale che metta fine alla sua vita. Un sospiro carico d'arrendevolezza uscì dalla bocca del ragazzo e donna Angela credette di vederlo spirare come la brina del mattino illuminata dal sole estivo verso la cupola del tunnel.

<<Riposati>>, gli disse << non ti serve altro>>.

***

Njchlas fissò la donna. In quei mesi le si era affezionato molto: era quasi una madre per lui. Nonostante i rimproveri, sapeva quanto bene provasse per lui e si sentiva in colpa, perché credeva di non meritarlo. La figura di donna Angela si stagliava contro il bagliore malaticcio della luce mattutina.

Si disse che non le avrebbe fatto del male, che non ne avrebbe trovato il tempo. Senza pensare, si toccò con le dita il ciondolo che adesso portava al collo, pesante quanto il maleficio che gli era stato lanciato contro.

Non disse altro, la guardò gentile e salì velocemente in camera sua, lasciando che una lacrima proveniente da un passato di cui non aveva memoria macchiasse i gradini su cui stava volando.

Quando Njchlas di fronte alla porta della sua stanza sentì il petto dolergli a causa di quella corsa improvvisata. I polmoni gli bruciavano e il medaglione che portava al collo sembrava sempre più simile a una catena che non si sarebbe mai spezzata. Cercò la chiave nella tasca e la inserì nella toppa, girandola con forza. La serratura emise un lamento sinistro e permise al legno sgangherato di aprirsi. Si gettò subito sul letto, fissando il soffitto nella speranza che qualcosa o qualcuno desse risposta ai mille quesiti che si affollavano nella sua mente.

Tastò la guancia da cui era scappata quella lacrima che avrebbe per sempre simboleggiato il taglio netto che aveva fatto con il vecchio se stesso.

Chi era veramente Dumal? Cosa aveva scambiato per ottenere un talento che forse già possedeva? Probabilmente aveva accettato un contratto che alla fine gli si sarebbe ritorto contro.

Sul soffitto giallognolo prese a delinearsi una figura. D'apprima incerta, si faceva strada sulle macchie indistinte lasciate dal fumo di sigaretta, trasformandole in soffici nuvole. Nel mezzo, sempre meno abbozzato, intravedeva un viso etereo.

<<Un angelo>>, disse sorpreso.

Il medaglione adagiato sul suo petto iniziò a farsi più caldo, scottandogli la pelle. Njchlas credette che se non si fosse alzato subito, la carne avrebbe iniziato a sfrigolare, marchiandolo in eterno, mentre dall'alto quell'angelo ignoto lo fissava con occhi che ancora non riusciva a scorgere.

Alzandosi dal giaciglio disfatto, prese un pennello e lo intinse in una bacinella sporca che teneva sempre sul comodino. Posò la punta morbida nel colore e tracciò una linea sottile sulla tela. La mano si muoveva come se non fosse sua, spinta da una forza che non riconosceva e che agiva sotto l'influenza di quell'immagine che continuava a popolare il cielo di mattoni e calce sporcata dal tempo che vedeva sopra di sé. Fu solo dopo molte ore che riuscì a riconoscerne il volto abbozzato, affiancato da una mano effimera che si stagliava in mezzo al dipinto incompiuto, in un gesto che avrebbe potuto benissimo significare la redenzione per milioni di peccatori.

Quell'angelo incompleto era la cosa migliore che avesse mai dipinto.

Lo sentiva sotto la pelle, fin quasi al livello del cuore, che pulsava a un ritmo incessante.

Le orecchie non sentivano più nulla, se non i rumori lenti delle setole intrise di colore contro il tessuto tirato della tela.

Quando uscì da quello stato, si accorse che aveva iniziato a disegnare una figura alata, di schiena, con una mano sospesa nel vuoto e la faccia rivolta verso lo spettatore. Nonostante fosse solo un bozzetto preparatorio, i dettagli di cui era stato capace in così poco tempo lo lasciarono senza fiato.

Capì fino in fondo il potere del patto stretto con Dumal, e fu allora che vide la mano dell'angelo mutare in qualcosa di diverso.

  Pietro Bazzoli. Giornalista / Scrittore





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